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Addio al re di Fleet street

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Addio al re di Fleet street Empty Addio al re di Fleet street




Fleet street era la leggendaria “via dell’inchiostro”, nel cuore di Londra, a due passi dalla City, dove avevano sede tutte le redazioni dei giornali. I pub e i ristoranti della zona erano frequentati quasi soltanto dai giornalisti, e dalle loro fonti o compagni e compagne di sbornia: poliziotti, avvocati, mariuoli, ballerine di night e simili. C’era un’atmosfera vibrante fino a tarda notte, un’eccitazione nell’aria, prodotta dalla spasmodica concorrenza tra una dozzina di quotidiani tra loro acerrimi rivali. Un mondo che nessuno ha raccontato meglio di Evelyn Waugh in “Scoop” (uscito in Italia con un titolo che fa addormentare, “L’inviato speciale”), forse il più bel romanzo mai scritto sul giornalismo, certo il più bello sulla golden age, l’era delle rotative, della vita spericolata, delle notti che non finivano più, delle imprese roboanti e romantiche. Tutto questo non esiste più: c’è ancora Fleet street, ma le redazioni dei giornali si sono trasferite in anonimi palazzoni nei sobborghi, per non parlare di quanto sono cambiati giornali e giornalisti, per certi versi indubbiamente in meglio, per altri meno. Quell’epoca magica, qui a Londra, ha avuto un re: Keith Waterhouse, giornalista, columnist, romanziere, commediografo, umorista, monumento vivente di un mestiere irriverente e ribaldo, all’insegna della gioia di vivere. Un reporter nato poverissimo e diventato ricco col suo lavoro, che amava scrivere, andare a pranzo, bere, divertirsi, non necessariamente in quest’ordine. “Non bevo mai quando scrivo”, diceva, “ma talvolta scrivo quando bevo”. Una leggenda. E una rara smentita del vecchio assioma secondo cui i buoni giornalisti non possono diventare buoni scrittori (”a meno di non smettere presto di fare il giornalista”, sosteneva Hemingway, che lo era stato brevemente). Waterhouse è morto ieri a Londra, a 80 anni, nella sua casa, accudito dalla seconda moglie, e stamani i giornali gli hanno dedicato pagine e pagine, come se fosse scomparso un membro della famiglia reale, un primo ministro, un grande attore shakesperiano, un campione dello sport. “Senza di lui”, ha scritto con dolce ironia il Times, “il lunch non sarà più la stessa cosa”, ed erano lunch interminabili, dopo i quali Keith faceva fatica a rialzarsi in piedi. “Credo che nessuno dovrebbe tornare al lavoro dopo pranzo”, è uno dei suoi innumerevoli motti di spirito, “ma per alcune persone sfortunate il lunch è a metà giornata”. Non per lui, che conduceva la vita disordinata dei giornalisti di un tempo. Per 35 anni lavorò al Daily Mirror; quando lo lasciò in polemica con l’arrivo del nuovo editore Robert Maxwell (”mi piacciono i grandi editori”, disse, “ma questo è un po’ troppo grande” - allusione anche al peso corporeo di Maxwell), tutti i giornali del regno se lo contesero e per un po’ il Mirror continuò a dargli uno stipendio solo perchè non andasse a scrivere per nessun altro. Poi scelse il Daily Mail, e ci restò altri 23 anni, praticamente fino alla morte: ha scritto l’ultima rubrica un paio di mesi fa, prima di ammalarsi troppo gravemente per continuare a picchiare sui tasti della sua vecchia macchina da scrivere, non avendo mai compiuto la transizione al computer. Le sue commedie, esilaranti ma con un tocco di malinconia, sono state portate sul palcoscenico del West End da attori del calibro di Albert Finney e Peter O’Toole. Quest’ultimo, suo grande compagno di bisbocce, ieri ha commentato: “L’Inghilterra della scrittura ha perso un campione. Nei romanzi, nel giornalismo, nel linguaggio, nelle commedie e nel lunch, Keith era un maestro”. Addio, re di Fleet street.
florin88
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