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Protesi ortopediche più longeve con l'aiuto della vitamina E
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Protesi ortopediche più longeve con l'aiuto della vitamina E
SECONDO i dati del ministero della Salute, diecimila protesi ortopediche, ogni anno (il 10 per cento del totale), vengono reimpiantate. Nessuno sa, però, quante sono quelle sostituite a causa del degradamento precoce del polietilene della protesi originale. Il polietilene, la più comune delle materie plastiche utilizzata per costruire protesi d'anca, di ginocchio, della caviglia e della spalla, talvolta si deteriora a causa del processo di sterilizzazione con i raggi gamma che favorisce l'ossidazione della resina termoplastica.
Per prevenire la vecchiaia di questi pezzi di ricambio del corpo umano da oggi è possibile usare la Vitamina E. Al Quarto congresso internazionale sull'Ultra high molecular weight polyethylene in corso al Cto di Torino sono stati presentati i risultati di una importante ricerca dei laboratori chimici torinesi. "Abbiamo dimostrato - ha spiegato Luigi Costa, professore di Chimica - che la vitamina E allunga di 750 volte la vita delle protesi ortopediche. Il polietilene normale sterilizzato a raggi gamma, infatti, dura 200 ore e poi si degrada. Se viene trattato con la vitamina antinvecchiamento, la sua vita dura 1500 ore".
Ogni anno nel mondo si producono 30 mila tonnellate di alfatocoferolo, il nome tecnico della vitamina. L'uso più frequente è terapeutico, per sfruttare sul corpo umano le proprietà antiossidanti che favoriscono longevità, fertilità e prestazioni sportive. In futuro, dopo i test chimici torinesi, la vitamina E potrà essere utilizzata anche per allungare la vita per le cose. "A contatto coi radicali che causano l'ossidazione del corpo umano o dei materiali - dice il professor Costa - l'alfatocoferolo si trasforma anch'esso in radicale, ma diventa stabile interrompendo, o ritardando, l'invecchiamento".
Ma come si è arrivati all'uso della vitamina nelle protesi? Tutto è cominciato nei primi anni Novanta a Torino, quando gli ortopedici della I Clinica Universitaria dell'Azienda Ospedaliera Cto hanno scoperto che alcune protesi d'anca (ma non tutte), dopo pochissimi anni dall'impianto, si degradavano. Una volta espiantato, il polietilene di quelle protesi usurate fu portato dalla professoressa Elena Brach del Prever al professore di Chimica industriale e materiali polimerici, Luigi Costa. Fu così che fu dimostrata la pericolosità del polietilene come biomateriale in seguito alla sterilizzazione con radiazioni ionizzanti.
I clinici ortopedici torinesi diretti dal professor Paolo Gallinaro, nel 1994 si videro rifiutare la pubblicazione delle loro ricerche dalla più imortante rivista scientifica ortopedica al mondo. Solo nel 1996 ottennero la pubblicazione del loro studio sulla rivista Biomaterials. Ma nonostante anche altre segnalazioni successive si continuò per anni a produrre e impiantare protesi con un polietiliene ad alto rischio di degradazione, pur conoscendone i rischi.
Sette anni dopo un nuovo capitolo con la gara di appalto del 2003 con la quale l'Aso Cto-Maria Adelaide invita 19 industrie internazionali (6 italiane, 8 europee e 5 statunitensi), a fornire all'azienda sanitaria ospedaliera, sede di università, protesi ortopediche pronte per l'impianto.
Il bando si conclude con un risultato shock: su 100 campioni presentati, la maggior parte è scartata. Il polietilene risulta ossidato o di peso molecolare di gran lunga inferiore ai valori standard.
In Italia, nel 2005 il ministero della Salute ha emanato una "raccomandazione" a non usare protesi sterilizzate con raggi gamma in presenza di ossigeno e a prestare massima attenzione al confezionamento e allo stoccaggio di polietilene sterilizzato con raggi gamma. Quindi il ministero sconsiglia anche l'impianto di protesi così sterilizzate più vecchie di 5 anni.
Ma come fare, oggi, per evitare che le aziende ospedaliere acquistino protesi difettose, prodotte con materiale di scarsa qualità? La proposta che arriva dagli esperti riuniti al congresso torinese è quella di inserire nelle commissioni acquisti delle Asl un chimico con il compito di analizzare i materiali dei prodotti in gara. E di istituire un registro nazionale per potere valutare nel tempo la sicurezza e l'efficacia di ogni protesi, confrontando così i dati ancora oggi insistenti.
Per prevenire la vecchiaia di questi pezzi di ricambio del corpo umano da oggi è possibile usare la Vitamina E. Al Quarto congresso internazionale sull'Ultra high molecular weight polyethylene in corso al Cto di Torino sono stati presentati i risultati di una importante ricerca dei laboratori chimici torinesi. "Abbiamo dimostrato - ha spiegato Luigi Costa, professore di Chimica - che la vitamina E allunga di 750 volte la vita delle protesi ortopediche. Il polietilene normale sterilizzato a raggi gamma, infatti, dura 200 ore e poi si degrada. Se viene trattato con la vitamina antinvecchiamento, la sua vita dura 1500 ore".
Ogni anno nel mondo si producono 30 mila tonnellate di alfatocoferolo, il nome tecnico della vitamina. L'uso più frequente è terapeutico, per sfruttare sul corpo umano le proprietà antiossidanti che favoriscono longevità, fertilità e prestazioni sportive. In futuro, dopo i test chimici torinesi, la vitamina E potrà essere utilizzata anche per allungare la vita per le cose. "A contatto coi radicali che causano l'ossidazione del corpo umano o dei materiali - dice il professor Costa - l'alfatocoferolo si trasforma anch'esso in radicale, ma diventa stabile interrompendo, o ritardando, l'invecchiamento".
Ma come si è arrivati all'uso della vitamina nelle protesi? Tutto è cominciato nei primi anni Novanta a Torino, quando gli ortopedici della I Clinica Universitaria dell'Azienda Ospedaliera Cto hanno scoperto che alcune protesi d'anca (ma non tutte), dopo pochissimi anni dall'impianto, si degradavano. Una volta espiantato, il polietilene di quelle protesi usurate fu portato dalla professoressa Elena Brach del Prever al professore di Chimica industriale e materiali polimerici, Luigi Costa. Fu così che fu dimostrata la pericolosità del polietilene come biomateriale in seguito alla sterilizzazione con radiazioni ionizzanti.
I clinici ortopedici torinesi diretti dal professor Paolo Gallinaro, nel 1994 si videro rifiutare la pubblicazione delle loro ricerche dalla più imortante rivista scientifica ortopedica al mondo. Solo nel 1996 ottennero la pubblicazione del loro studio sulla rivista Biomaterials. Ma nonostante anche altre segnalazioni successive si continuò per anni a produrre e impiantare protesi con un polietiliene ad alto rischio di degradazione, pur conoscendone i rischi.
Sette anni dopo un nuovo capitolo con la gara di appalto del 2003 con la quale l'Aso Cto-Maria Adelaide invita 19 industrie internazionali (6 italiane, 8 europee e 5 statunitensi), a fornire all'azienda sanitaria ospedaliera, sede di università, protesi ortopediche pronte per l'impianto.
Il bando si conclude con un risultato shock: su 100 campioni presentati, la maggior parte è scartata. Il polietilene risulta ossidato o di peso molecolare di gran lunga inferiore ai valori standard.
In Italia, nel 2005 il ministero della Salute ha emanato una "raccomandazione" a non usare protesi sterilizzate con raggi gamma in presenza di ossigeno e a prestare massima attenzione al confezionamento e allo stoccaggio di polietilene sterilizzato con raggi gamma. Quindi il ministero sconsiglia anche l'impianto di protesi così sterilizzate più vecchie di 5 anni.
Ma come fare, oggi, per evitare che le aziende ospedaliere acquistino protesi difettose, prodotte con materiale di scarsa qualità? La proposta che arriva dagli esperti riuniti al congresso torinese è quella di inserire nelle commissioni acquisti delle Asl un chimico con il compito di analizzare i materiali dei prodotti in gara. E di istituire un registro nazionale per potere valutare nel tempo la sicurezza e l'efficacia di ogni protesi, confrontando così i dati ancora oggi insistenti.
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